“Dalla successione farraginosa di gesti, movimenti e percezioni che continuano a ingrossare la massa amorfa della quotidianità, se ne distacca uno, apparentemente insignificante e spicca come la nota stonata sul pentagramma, … C’è stata un’avaria o forse è l’inizio di qualcosa di nuovo, …” (Milan Kundera)
Chi soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare descrive spesso il suo corpo come un estraneo e un nemico.
Si vive “esuli” nel proprio corpo, con un sé ferito e umiliato a tal punto, che si è costretti a ritirarsi da quella “terra”, il nostro Corpo, che ci è stata data per vivere, e con una mente, che come una scimmia impazzita, deforma questo spazio a suo piacimento, fino a condurlo allo sfinimento.
L’eziopatogenesi dei disturbi alimentari è di tipo multifattoriale: fattori predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), fattori precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e fattori di mantenimento (sindrome da digiuno e il rinforzo positivo dall’ambiente). (https://www.stateofmind.it/disturbi-alimentari-dca/)
Nel mio lavoro come Educatore Professionale e Danzaterapeuta, trovo interessante andare a osservare quando e come nella nostra vita ha avuto inizio la relazione con il cibo.
Se pensiamo alle diverse fasi evolutive del bambino, la fase “orale” è quel momento della sua esistenza in cui esiste e si instaura un stretto legame con la madre, che è fonte di nutrimento e non solo.
Il legame “nutrizionale” che si crea tra madre e bambino è la prima forma di scambio affettivo, il neonato quando si allatta vive uno stato di fusione totale con la madre, e in questo legame così viscerale e profondo si mettono in scena tutta una serie di dinamiche, stati emozionali che passano dalla madre al bambino e viceversa: emozioni, pensieri, immagini.
Possiamo osservare come l’alimentazione non è solo un bisogno fisiologico ma è strettamente collegata alle nostre emozioni.
E’ proprio nei primi due anni di vita del bambino che vanno a formarsi quelle che le neuroscienze definiscono le nostre “memorie implicite” che rimangono tessute nel nostro corpo e condizionano poi tutto il nostro modo di vivere e relazionarci da adulti.
Sono memorie che si creano attraverso l’”agire del corpo” ed è proprio attraverso un “linguaggio non verbale” che possono riemergere e trasformarsi.
La metodologia della Danzaterapia Clinica mette in campo il corpo come strumento di “risveglio” di queste memorie e attraverso il movimento ci aiuta a esplorare e ad accogliere parti di noi abbandonate, sconosciute, attivando i nostri sensi, riscoprendo i nostri bisogni e permettendoci così di agire per soddisfarli.
Il suo linguaggio non verbale diventa uno strumento espressivo per dare forma a tensioni e spinte psichiche, emotive e relazionali, manifestando così quel bisogno espressivo dell’essere umano.
Attraverso i gesti nella danza, la persona inizia a risvegliare quelle memorie implicite e somatiche che non trovano parole nel linguaggio verbale, ma che permettono prima a livello corporeo e poi a livello mentale di risvegliare , smuovere, trasformare ciò che il corpo trattiene e lo deforma.
E’ proprio il potere espressivo del gesto che ci rende capaci di portare fuori quanto prima non c’era o se c’era , era così sepolto sotto gli stradi del nostro inconscio da non poter essere visto.
Il ruolo del terapeuta, in un percorso di Danzaterapia con utenti che soffronto di DCA, è di accompagnare la persona nel riconquistare lo “Spazio del suo Corpo” abbandonato e lasciato a lungo in balia, riprendendone così possesso, per ricostruire la sua forma e ritornare a vivere.
Dobbiamo ritornare a “Essere Corpo” come segno dell’”Essere in Vita” e il Corpo nella Danzaterapia è ciò che si E’, mosso dalle nostre sensazioni, emozioni piuttosto che oggetto che muovo.
Dott.ssa Cristina Pipan
Educatore Professionale socio-pedagogico
Danzaterapeuta Clinica
Posturologa